Mohamed Aouragh e il pellegrinaggio della memoria.

Mohamed Aouragh e il pellegrinaggio della memoria.

Mohamed Aouragh, Cris du Maroc, éditions GAP 2015; prefazioni di Patrick Chemin e Michel Etiévent.

Ho avuto modo di conoscere la raccolta di poesie “Cris du Maroc” ed il suo autore, Mohamed Aouragh, durante le giornate del Festival de Poésie di Sète, la bella cittadina che presenta la caratteristica di aver conservato, riconoscibili ma discreti, i segni di una ben marcata tradizione culturale.

Sarebbe facile, parlando di scrittura, appoggiarsi a citazioni dai suoi figli più noti, cioè George Brassens e Paul Valéry ma spero che una mia antica affezione al “Cimitero” di quest’ultimo mi possa porre al di fuori di un ricorso affrettato e subdolo a citazioni dell’Autore di opere come “Tel quel”, che ci hanno insegnato che in un punto avanzato di quello scavo che ci ostiniamo ad operare nel nostro “io”, troveremo che la nostra “preziosa” individualità trae nutrimento dalla relazione con “l’altro”, in un universo di contingenze.

Questa è la prima riflessione che mi ha suggerito la raccolta di poesie di Mohamed Aouragh, che viene preceduta da due prefazioni.

Caso raro, si direbbe ma non senza motivo, in quanto così annuncia implicitamente una poetica che non è semplice lirica ma trae origine dall’universo che la comprende e ne traccia, restituendole, le parti più significative.

Patrick Chemin, in una di queste due prefazioni, dice al poeta di “mandare notizie”, quali che siano. Cioè, diremmo noi, di ottemperare a uno dei doveri primi del poeta, quello di comunicare per dare conoscenza di un mondo che, per quanto creato “ad artificio”, ha la sua origine in dati reali, che la capacità dell’autore sa assemblare per restituirli in un nuovo insieme da cui si avranno stimoli per nuove riflessioni, libere da enunciati assolutamente personali, che si ostinano a declamare su di un “io” tanto povero di creatività da non riuscire che a proporre se stesso, nelle immutabili forme della presunta perfezione della propria espressione.

Eppure si stima che il cervello umano, in cui sono presenti circa 100 miliardi di neuroni, sia irrorato da una rete di vasi sangugni della lunghezza totale di oltre 640 chilometri. Si tratta di tenerlo presente, non solo come curiosità da “Settimana enigmistica”, a cui, per altro, confesso di essere affezionato da anni, come consiglio di esserlo a un qualsiasi autore – me per primo – munito di penna o altro strumento idoneo alla scrittura manuale, nei momenti di scarsa vena creativa. La soluzione di un rebus può procurare maggiori e più sinceri riconoscimenti di quanto non possa fare una poesia scritta in una “brutta” che si vuol far credere una “bella copia”.

La poesia di Mohamed Aouragh ci porta invece la bellezza della scoperta di frammenti di vita che costituiscono il mondo policromo di un Paese le cui tinte forti sono attenuate mano a mano che si avvicinano a queste sponde del Mediterraneo e si inoltrano nel loro entroterra, dove, per una “inspiegabile” ragione perdono gradualmente il loro peso di reale tragicità, rispetto all’espressione della quale la parola può essere forte, debole, veritiera o mendace.

Se con De Saussure possiamo ricordare che il significato di un parola non è l’oggetto che essa designa ma la rappresentazione mentale di quell’oggetto, chiediamoci quali immagini e sensazioni susciti in noi, in base alle nostre conoscenze o non conoscenze di quel Paese, la parola “Marocco”. La risposta sarà molteplice.

Chiediamoci quali immagini e sensazioni susciti in noi la parola “grida”. La risposta avrà a che fare forse solo due stati d’animo: gioia o dolore.

Chiediamoci quali immagini e sensazioni susciti in noi la parola “Marocco”. La risposta avrà a che fare con i riflessi plurimi che essa susciterà.

Chiediamoci, infine, quali immagini suscitino in noi le parole “Grida dal Marocco”.

La risposta avrà molteplici aspetti e la poesia di Mohamed ci aiuterà a ritrovarci nel nostro confuso labirinto e ci permetterà di trovare l’interpretazione che più aderisce alla realtà incontrovertibile dei fatti, senza il facile supporto di additivi ideologici.

Ci parlerà di serene “finestre aperte sugli ulivi” (“Tagouraste”) ma anche del suicidio di donne abusate (“Ytto”).

Delle donne tatuate che arrivano dalla foresta (“Ksar de l’Atlas”) e di tiranni arrivisti (“Midelt bien aimée”). Ci dirà di quanto poco sappiamo del canto berbero “tamawayte” che forse si spande anche in questo momento fuori di celle di tortura (“Regards des cimes”) di cui non avevamo conoscenza.

Ci dirà dell’avvenente Aïcha Kandicha (“L’Ecolier de Flilou”), che partecipò alla resistenza contro l’occupazione portoghese del XVI secolo e conosceremo gli “hitistes”, appoggiati a un muro della Casbah (“Houria fille de la Casbah”) in attesa di strappare un visto per emigrare verso Paesi – quelli in cui viviamo – che sappiamo sempe più ostili.

Ma ci parla anche di una memoria collettiva che si vorrebbe saccheggiare, come fu per le miniere del Paese (“Aouli”), di cui il villaggio di Anjil, da tempo abbandonato è l’effigie. Non è sfuggito all’ecatombe, eppure con la voce del poeta torna alla vita, restituendoci l’immagine dei suoi giorni passati: è estate, mentre i minatori sfidano il grisou, i ricchi europei si annoiano nelle piscine protette da reticolati e guardie armate. I bambini del luogo sognano un tuffo in quelle acque proibite. Le guardie intervengono preventivamente. Oggi i bambini, “schiavi delle miniere”, vagano nei cunicoli abbandonati alla ricerca della “ perle souhaitée”, da svendere a qualche intermediario che la destinerà ai nostri mercati. Sui nostri mercati.

Ed infine, forse, chi vorrà, comprenderà che nelle grosse berline che percorrono i viali di Tangeri (“Tanger ded rêves brûlés”) ha lasciato le macerie fumanti del proprio egoistico tangerine dream e ricorderà, con commossa, aristocratica e benevola comprensione.

Altri, seccati per essere stati distratti dall’osservazione del proprio ombelico, diranno che questa non è poesia; altri taceranno, non solleticati nei loro tic intellettuali.

Ma la poesia nasce dal pesante bagaglio che un buon poeta dovrebbe sempre avere sempre con se, in ogni viaggio intrapreso, reale o immaginario. Ingombrante e scomodo, comporta la fatica da sopportare e vincere per arrivare alla “cosa” poetica (Valéry) , comprensibile anche da parte di chi quel viaggio non ha compiuto.

Se la parola è – anche – emozione e non soltanto un elemento accessorio di un discorso coerente da ricercare nella Tabula Combinatoria del gesuita Kircher o soltanto un termine da resuscitare dal sillabario della retorica tradizionale o contemporanea, essa riesce a diventare veicolo di una comunicazione intersoggettiva e Mohammed, invitandoci al suo “pellegrinaggio della memoria”, in cui ci troveremo inizialmente spaesati, ci aiuterà a guardare in modo diverso ciò che pensavamo di conoscere. E questo è, sostanzialmente, quello che dovrebbe essere in grado di fare un poeta, che dell’esperienza sa fare poesia, cioè quella “cosa” fatta di parole che sappiano comunicare. Semplicemente perché, se la poesia è un’arte del linguaggio, il linguaggio, altrettanto semplicemente, è uno strumento pratico e, come tale, al pari di un bulino o di una mannaia, dimostrerà la sua efficienza, se usato con competenza.

 

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